L’estate ci abbandona e i suoi colori sgargianti si spengono per lasciare posto a tinte più scure. Le zone collinari sono cariche degli acini succosi e tondi dell’Uva, uno dei frutti autunnali per eccellenza, prodotti dalla divina Vite. La pianta, il frutto e il prodotto che se ne trae – il vino – racchiudono una profonda simbologia che va di pari passo con questo momento dell’anno di apparente declino vitale.
Nell’antichità, infatti, la Vite divenne uno dei simboli per eccellenza dell’immortalità: i suoi frutti sfamano esseri umani e animali d’ogni genere, dall’uva si produce il vino e quest’ultimo viene consumato abitualmente da tutti. Non è difficile trovare la sua analogia con il ciclo di vita, morte e rinascita.
La Vite ci racconta proprio questo. Ci parla del ciclo delle stagioni, della Trasformazione alla quale nessuno è immune e che coinvolge tutti gli esseri viventi del pianeta. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Lo stesso atto della vendemmia, per esempio, rappresentava un tempo la morte, il disfacimento del corpo. Il Vino che si ricava da tale procedimento, necessita di buio e temperature basse per essere chiarificato e divenire limpido, come lo beviamo. Freddo e assenza di luce sono, inoltre, due elementi che si associano per antonomasia alla morte, ma l’antica saggezza racchiusa anche nella Vite e nel vino insegna che questi due elementi sono necessari per giungere all’essenza delle cose. Accade nella morte fisica, ma anche simbolicamente nelle avversità che tutti siamo chiamati ad affrontare. Si scende metaforicamente in quelli che chiamiamo gli inferi per poi ascendere al paradiso, al regno celeste, per così dire.
Insomma, niente di diverso da quello che tocca a tutti in questa stagione appena cominciata, quella autunnale: attraverseremo il buio e il freddo del prossimo Inverno, per rinascere rinnovati in Primavera, in un ciclo che si ripete sempre. Non esiste il tempo dei fiori, se prima non viene il tempo del seme: il momento del buio, del riposo, di un’energia che si concentra all’interno per poi manifestare la bellezza della vita all’esterno.
Fin dall’antichità la Vite è stata assunta come simbolo della divinità, dell’amore e della purezza. Si sono celebrate feste e cerimonie in onore di questa pianta e dei suoi frutti, non solo nell’antica Grecia.
Per i Celti, la Vite corrispondeva al periodo che va dal 2 al 29 settembre nel calendario arboricolo druidico legato all’alfabeto Ogham. Per questo popolo era una pianta connessa con la gioia, le emozioni e favoriva l’istinto e le doti profetiche. I Celti amavano il vino che si produceva – e si produce – dalla Vite, tanto che furono loro a ideare le botti di legno, più capienti delle anfore utilizzate dai Romani, che ancora oggi vengono usate per conservare la bevanda. A differenza di altre culture, la Vite presso i Celti era associata alla Dea e ai suoi molteplici aspetti. La chiamavano Muin, che significherebbe “insegnamento” o “istruzione”, anche se si pensa che questo termine indicasse originariamente il Rovo, dalle cui more si produceva un vino apprezzabile caro alle fate. Il vino ricavato dall’uva e consumato nei rituali portava al poeta l’ispirazione avulsa da inibizioni, poiché alla bevanda era attribuita la facoltà di liberare il potenziale istintivo e intuitivo insito nell’essere umano. Tuttavia, l’uso a scopo rituale era consentito solo prima della festa di Samhain (31 ottobre – 1 novembre).
Anche i Sumeri associavano la Vite a una Dea, la Dea Vite o Madre Vite, per l’appunto. Questa pianta era chiamata anche “l’erba della vita”, lo testimonia anche La Saga di Gilgamesh, in cui l’eroe chiede proprio a Sabitu, “la donna del vino”, la via che lo condurrà all’immortalità. Non a caso il segno sumero che indicava la Vite aveva la forma di un pampino.
Il ciclo della Vite e del vino era celebrato nell’antica Grecia durante le Dionisie, feste dedicate a Dioniso, alla sua nascita, alla sua morte e alla sua resurrezione che attraversavano un tempo che andava da ottobre a marzo.
La vendemmia, durante le celebrazioni, rappresentava l’allegoria della morte per smembramento del dio. La festa iniziava assaggiando e miscelando il vino, poi si celebrava il luogo in cui l’uva veniva pigiata e in cui si conservava la bevanda se ne estraeva fino al momento in cui sarebbe stata pronta. A quel punto, si festeggiava la nascita del vino e del fanciullo divino figlio di Zeus (gennaio) fino a giungere alla sua morte e al suo ritorno nel regno infero (primavera). Quest’ultimo periodo di passaggio, costituito da tre giorni, era contraddistinto da una simbologia profonda che riguardava proprio la Vite e i suoi prodotti. Il primo giorno i recipienti d’argilla che contenevano il vino venivano aperti cosicché le anime dei defunti potessero dissetarsi, risalendo dagli inferi. Il secondo giorno erano i vivi a gustare con ebbrezza ed euforia il succo d’uva fermentato, alludendo all’oltremondo costituito da liberazione e gioia, per chi entrava in comunione con il Liberatore. Inoltre, si celebravano le nozze di Dioniso e sua moglie.
Un tempo, dunque, come del resto è ancora oggi, il vino era una bevanda sacra, legata al Divino. Insieme al pane non manca mai sulle tavole italiane; infatti, sono entrambi simboli importanti della religione cristiana. Sebbene i simboli di questa gestualità dovrebbero essere conosciuti, in essa e nelle parole della religione si celano significati più profondi di quelli che siamo abituati a cogliere in superficie.
I cristiani associano il Vino al sangue. Ne è diventato il simbolo per via del colore e delle caratteristiche: rappresenta il sangue di Cristo offerto per l’umanità. Non siamo abituati a pensare in questi termini, ma nella psicosomatica il sangue rappresenta la gioia, quella di vivere in armonia con il Creato e le sue leggi, tant’è che perdere sangue, sia esso in piccole o grandi quantità, equivale a perdere un po’ di quella vita preziosa che ci è stata donata. Il sangue che Cristo avrebbe offerto all’umanità è la sua gioia, la gioia di chi vive seguendo i suoi principi, quelli dell’Amore (non mi riferisco ai valori religiosi cattolici, il discorso è più ampio e lo sguardo andrebbe esteso oltre i dogmi e la sola filosofia cristiana). La gioia di Cristo è offerta con amore a tutti, fedeli o meno. Il sangue, la gioia, è sempre a nostra disposizione, sebbene troppo spesso lo dimentichiamo.
Ancora una volta, dunque, la Natura e la saggezza antiche ci raccontano storie che oggi non siamo più abituati ad ascoltare e non sappiamo più decifrare. Al di là del credo religioso di ognuno, ritengo sia importante ricongiungersi ai significati esoterici e occulti di gestualità, simboli e allegorie che un tempo rappresentavano il “pane quotidiano” dell’essere umano e che oggi abbiamo dimenticato. Essere consapevoli di ciò che si introduce nel nostro organismo, anche a livello spirituale, offre una comprensione più ampia delle cose, avvicinandoci al mondo a cui la nostra Anima aspira: quello dello Spirito.
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